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venerdì 19 agosto 2011

Ancora sul Lacus Timavi

Lisert è una corruzione di Desertum e Loca deserta ("i luoghi abbandonati").
Oggi il Timavo si compone di quattro bocche.
Il rumore rimbombante delle sue acque è descritto da Virgilio nell'Eneide i cui versi sono trascritti su una roccia carsica presso San Giovanni di Duino.
Il Locavaz è un breve fiume che nasce dal lago di Pietrarossa.
Lo storico Strabone, nel I sec. a.C., definì il Timavo come "fonte e madre del mare".
Il Lacus Timavi era uno specchio d'acqua tranquilla che si trovava dinnanzi alle bocche del Timavo ed era delimitato dalla presenza di due isole, le Insule Clarae, che lo configuravano come un sistema lagunare.
Nel tempo il mare si sarebbe trasformato prima in palude e poi in terraferma, così come viene ricordato nel "Discorso sul Timavo. Per le nozze Guastalla - Levi" (1864) di Pietro Kandler, studioso di antichità.
Ci sarebbero stati, quindi, avanzamenti della linea di costa a causa di depositi di limi provocati dalla scarsa manutenzione dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente. Vi furono poi alluvioni e mutamenti climatici nel VI sec. d.C. narrati dallo storico longobardo Paolo Diacono.
Vi furono, inoltre, dissestamenti al letto dell'Isonzo. Ed in ultimo le grandi modificazioni del XX sec. per la bonifica in preparazione degli insediamenti industriali.
Nel Lacus sfociavano sia il Timavo che l'Isonzo. Qui, davanti alle propaggini del Carso, si estendevano mistici boschi. Si narra infatti di come qui vivessero in sintonia lupi e cervi e i cani da caccia si rifiutavano di inseguire le proprie prede.
La ricostruzione del tessuto antico è avvenuta tramite le testimonianze degli autori antichi, le indagini archeologiche e le ricognizioni di Pietro Kandler e Alberto Puschi nell'800.
La linea di costa antica doveva corrispondere con l'attuale strada statale 14 "Triestina", via Cesare Augusto Colombo e via Arrigo Boito per proseguire ulteriormente verso est al margine della strada statale 14.
Sulla costa si trovavano molte ville romane che, con la loro tipica conformazione ad "U", si aprivano verso il mare.
Di isole in realtà ve ne erano due: la prima era l'isola di Belforte sulla quale i veneziani, nel 1284, avevano costruito un forte. Questa era posta a sud dinnanzi all'imbocco della laguna. Probabilmente in epoca romana era sede di un faro, vista la sua posizione strategica.
L'altra isola, di cui si pensava erroneamente fossero due a causa di un lembo che univa le due parti, era chiamata "Insule Clarae" e si trovava proprio dinnanzi alle foci del Timavo, lunghe all'incirca un chilometro.
Essa era famosa per la presenza di polle di acqua termale.
La bonifica stravolse ciò che era rimasto dell'isola, già trasformata in terraferma. Fino a quell'epoca si stagliavano due collinette: quella di Sant'Antonio o dei Bagni ad occidente e quella della Punta o di Amarina ad oriente.
Mentre la collina della Punta è stata spianata totalmente, quella di Sant'Antonio è stata gravemente danneggiata dalla costruzione di una cava ed ora ne rimane solo un lacerto e ora rimane solamente la leggenda della presenza del Diaul Zot nelle ormai distrutte grotte di Sant'Antonio o delle Fate.
Castore e Polluce erano signori del mare e dei venti nonchè protettori dei naviganti.
Anche le vicende di un principe troiano, Antenore, e quelle di un re greco, Diomede, sono legate al Timavo.
Antenore giunse qui dopo la guera di Troia (circa XII sec. a.C.), giungendo qui assieme ai suoi e ad un gruppo di Eneti (antenati dei veneti).
Diomede, re di Argo, dopo la guerra di Troia fece ritorno nel suo regno, ma qui non vi trovò pace (la moglie l'aveva tradito) e arrivò nel caput Adrie dove insegnò la navigazione e l'arte dell'allevamento dei cavalli.
Egli diviene oggetto di venerazione nel santuario dedicato al Dio Timavo e a lui vengono sacrificati cavalli Bianchi.
Questi miti celano qualcosa che probabilmente avvenne realmente: collegamenti mercantili tra l'Asia minore ed i veneti.
La presenza di un porto nel terzo rame del fiume è testimoniata da ritrovamenti archeologici sia Istri che veneti.
I castellieri prossimi al timavo sono quelli della Rocca, della Gradiscata, delle forcate, del Golas, della Moschenizza, del Castellazzo di Doberdò, del Flondar e sul monte Ermada che vennero studiati da Carlo Marchesetti.
Qui dal Baltico giunge l'ambra la resina fossile che la leggenda vuole siano le lacrime delle ninfe Eliadi sorelle di Fetonte, figlio di Apollo che con il cocchio aveva portato il sole troppo vicino alla Terra, per questo venne punito con la morte dal nonno Zeus. Il suo corpo, si dice, cadde proprio nel Timavo.
Il Timavo costituiva il confine naturale tra Veneti ed Istri.
Nel 225 a.C. Roma, per espandersi nella fertile Pianura Padana, comincia la guerra contro i galli insediati in quei luoghi.
Tra il 222 e il 221 a.C. imbarcazioni romane che stavano portando rifornimenti all'esercito nella Pianura Padana, vennero depravate dagli Istri, così, a guerra gallica conclusa, nel aprile del 221 a.C. Roma avvia la prima guerra istrica le cui operazioni vennero condotte dai consoli Publio Cornelio Scipione Asina e Marco Minucio Rufo contro gli Istri di Epulone la cui residenza era a Nesazio.
La guerra, condotta per mare, fu davvero cruenta.
Nel 183 a.C. venne fondata Aquileia che oltre a porto commerciale sarebbe stata una fortificazione contro gli Istri i quali furono si da subito ostili alla creazione dell'urbe.
Nel 178 a.C. gli istri di Epulone riprendono le azioni belliche contro i romani, inaugurando così la seconda guerra istrica i cui fatti si svolsero proprio presso il Lacus Timavi, i cui eventi ci sono trasmessi da Tito Livio.
Le operazioni vennero condotte dal console Aulo Manlio Vulsone e da Gaio Furio a capo delle navi.
I romani furono vittoriosi e sterminarono in gran parte gli istri.
Successivamente, a causa della criticità della situazione che si aggravò ulteriormente nel 177 d.C., si aggiunse al comando delle operazioni un secondo console: Marco Giunio Bruto.
I due consoli si addentrarono nel territorio degli istri, dove il successivo nuovo console, Caio Claudio Pulcro, trionfò su Nesazio che venne assediata e gli istri rimasti preferirono il suicidio.
Nel 129 a.C. avvenne la terza ed ultima guerra istrica condotta dal console Caio Sempronio contro Taurisci e Liburni che erano avanzati in Dalmazia (il territorio dal 177 a.C. era sottoposto ad accordi tra i romani e le tribù di istri), nonché contro le tribù locali e di Carni che si erano rivoltate. I romani vinsero nuovamente.
La Fons Timavi, oltre che nella Tabula Peuntingeriana, è riportata anche nell' Itineraria Antonini.
La via che da Aquileia conduceva a Pola era la via Gemina. Sembra infatti che la legione, nei periodi di pausa dagli eventi bellici, fosse impiegata nella costruzione di opere pubbliche come ad esempio il ponte sul Locovaz osservato da Alberto Puschi.
Dal 35 a.C., sotto Agusto Ottaviano, il percorso venne sdoppiato in una parte bassa ed una alta che si inoltrava nel Carso per poi discendere e ricongiungersi con il tratto più basso presso San Giovanni di Duino.
Il tratto basso probabilmente era destinato alla circolazione veloce, mentre il tratto alto al passaggio di carri trainati da buoi che seguivano i solchi scavati nel basolato.
Quasi certamente la villa presente presso l'acquedotto del Randaccio era una mansio di sosta voluta dallo stato affinchè i viaggiatori potessero trovare accoglienza durante i loro viaggi.
Quest'edificio, la cui superficie scavata è di 1300mq, ebbe tre fasi costruttive: la prima fase (I sec. a.C.) vede stanze molto piccole e pavimento in semplice coccio pesto, durante l'età augustea (seconda fase) la villa viene arricchita con dei mosaici in bianco e nero, mentre le stanze vengono strutturate in maniera più alraffinata. Infine nell'ultima fase (I sec. d.C.) viene realizzato un sistema di riscaldamento all'interno delle pareti.
In tutto sono stati individuati quaranta vani.
Dal I sec. a.C., con la costruzione della strada e della mansio, l'area vede ridursi di importanza cultuale, mentre aumenta quella salutistica grazie alla presenza delle Terme di Monfalcone.
È stata inoltre accertata la presenza di una necropoli romana. Alcuni studiosi l'hanno riferita alla presenza della villa, mentre altri hanno ipotizzato che si trattasse di malati morti presso le terapie alle termi, come, peraltro, attestato da alcune epigrafi.
Negli anni '70 è stata rinvenuta la villa della Punta dotata di una complessa struttura di cui una parte era dedicata a residenza e l'altra alla produzione come si evince dal ritrovamento di un torchio per olive.
Una stanza presenta un raffinato pavimento musivo rappresentante due delfini.
In prossimità dell'edificio è stata rinvenuta un'imbarcazione affondata per cause non ancora note che oggi è possibile ammirare presso il Museo Archeologico Nazionale di Aquileia.
Le ville che sorsero sul Lacus Timavi erano "marittime". Scenografici avancorpi porticati si affacciavano sul mare. Oltre alla parte residenziale ve ne era una dedicata alle attività produttive quali: la lavorazione della lana, l'allevamento del pesce, la coltivazione di molluschi, la coltivazione dell'Ulivo e della vigna.
Ricordiamo che il noto vino rosso "Pucinum" veniva prodotto nell'area compresa tra il Villaggio del Pescatore e Duino.
Ogni villa aveva la propria darsena d'approdo, mentre da indagini eseguite sul primo e terzo ramo del Timavo (dagli anni '70 al 2000) hanno riscontrato la presenza di materiale che va dall'epoca romana a quella rinascimentale.
Il rinvenimento di blocchi squadrati fa pensare ad una vera e propria sistemazione della banchina.
Nelle aree tra il secondo e il terzo ramo è stata riscontrata la presenza di un Ninfeo, una sorta di luogo sacro alle ninfe, mentre sulla sponda sinistra del terzo ramo sono state trovate le tracce di un vero e proprio magazzino per lo stoccaggio dei prodotti.

Fonte: "La voce dell'acqua. Il Lacus Timavi tra mito, realtà materiali, eredità spirituali" - Comune di Monfalcone e Ministero per i beni e le attività culturali.
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